Si dice che Madame Roland, una nobildonna francese condannata alla ghigliottina dai rivoluzionari del 1793, passando davanti a una statua della libertà abbia esclamato: «Libertà, quanti delitti si compiono nel tuo nome!».
Vera o meno che sia l’affermazione ha una sua importanza e aiuta a qualche riflessione. È evidente che le parole possono essere usate a piacimento – soprattutto da chi sta al potere – e assumere un significato diverso da quello comune. La libertà dei rivoluzionari settecenteschi si muta presto in arbitrio e in un esercizio del potere ben lontano dal declamato trittico “Liberté, egalité, fraternité”.
Lo stesso rischia di accadere per la parola democrazia nel mondo occidentale.
Il tema mi è stato richiamato alla mente dai provvedimenti di esclusione effettuati dai social media più diffusi nei confronti del Presidente Trump, reo di aver in qualche modo scientemente provocato l’assalto a Capitol Hill, così viene comunemente chiamata la sede del Congresso degli Stati Uniti d’America.
In molti hanno applaudito a questa decisione ma non sono mancate, anche se poche, voci critiche. Ho trovato particolarmente significativo quanto dichiarato a “la Repubblica” da Massimo Cacciari, personalità certamente non vicina a Trump.
«Ha dell’ incredibile che un’ impresa economica la cui logica è volta al profitto, come è giusto che sia, possa decidere chi parla e chi no. Non è più neanche un sintomo. È una manifestazione di una crisi radicale dell’ idea democratica e che alcuni democratici non lo capiscano vuol dire che siamo ormai alla frutta».
E ancora: «Se non c’è una struttura politica che decide un controllo preciso su questi strumenti di comunicazione e di informazione decisivi ormai per le sorti delle nostre democrazie, è evidente che saranno gli Zuckerberg di questo mondo a decidere delle nostre sorti».
Le questioni poste da Cacciari vanno al di là della censura a Trump, peraltro ormai fuori gioco, ma sottolineano l’influenza che i nuovi mezzi hanno nel determinare posizioni politiche o atteggiamenti di massa nella vita sociale.
Si impone una regolamentazione di queste grandi reti la cui diffusione e pervasività, unita alle immense risorse che stanno accumulando anche grazie alla pandemia, è in grado di determinare processi sociali e influenzare risultati politici. E, ancora più gravemente, decidere chi può comunicare per mezzo loro e chi no.
È fin troppo facile far rilevare che, al contrario di Trump, non sono stati mai bloccati quei dittatori asiatici o latinoamericani che pure li usano; e neppure i tanti post che rimandano a siti e centri di dubbia moralità o pericolosità sociale.
Formalmente parlando i social sono aziende private e come tali, si dice, possono consentire l’accesso a loro scelta. Tuttavia dal momento che svolgono una evidente funzione pubblica nel campo della diffusione delle informazioni occorre che siano sottoposte a normative precise che ne regolino i comportamenti.
Cosa diremmo se il gestore del nostro smartphone si arrogasse il diritto di censurare le nostre telefonate a persone a lui non gradite? O se per salire su un autobus di linea gestito da un privato si dovesse esibire un certificato di buona condotta ?
Lo spazio pubblico, qualunque esso sia, deve esser normato e solo la legge può definire le modalità di accesso e/o di utilizzo.
La preoccupazione di Cacciari è del tutto ragionevole «Non è che noi possiamo decidere su questioni di principio in termini occasionali, quello ci piace allora parla, quell’ altro non parla. Ma siamo pazzi?».
Nella vicenda americana c’è, tra l’altro, anche un paradosso perché i social che si sono ribellati a Trump sono le stesse aziende che proprio il presidente USA ha difeso ogni volta che, ad esempio in Europa, qualcuno avanzava l’ipotesi di sottoporre queste attività a regimi fiscali più stringenti.
Ma questa è solo una delle contradizioni nelle quali si trova oggi la democrazia americana, Paese che appare profondamente diviso se è vero che più di settanta milioni di americani hanno votato per Trump mentre il compito del nuovo presidente Biden appare tutt’altro che semplice, come acutamente rilevato da Giuliano Cazzola sull’HuffPost: «Se fossi in Joe Biden non mi preoccuperei soltanto del nuovo tipo di opposizione che può mettere in campo Donald Trump. L’anziano presidente è riuscito a prevalere su due fronti: quello che lo ha contrapposto al suo rivale e quello interno all’area liberal, dove stanno emergendo tendenze inaccettabili. Non si tratta solo del socialismo di Sanders (un nobile ideale che sta scomparendo ovunque non può sbocciare negli Usa); bensì di una lunga serie di ‘’mostri’’ generati, anch’essi, dal sonno della ragione: il culture cancell, il Black lives matter, il razzismo dell’antirazzismo, il peccato originale del cittadino wasp, la richiesta di abolire la polizia, il Metoo, il gender, il ripudio della propria storia, la discriminazione, alla stregua e con gli effetti di un nuovo maccartismo, delle opinioni ritenute non ‘’politicamente corrette’’. Per governare Biden deve preoccuparsi di ambedue i nuovi deliri collettivi».
Osservazione acuta che indica con chiarezza l’affermarsi negli USA di una nuova cultura per la quale, tra l’altro, la parola democrazia, come la parola libertà, prendono sempre più il significato voluto da chi ha il potere del denaro e quello di influenzare i comportamenti delle persone, anche irridendo i valori nei quali esse si riconoscono.
Tra pochi giorni Trump sarà un ex Presidente, la sua esclusione dai social forse dimenticata, ma sull’agenda della buona politica sarà necessario segnare che è giunto il tempo di una sfida ai nuovi “imperatori” del web e della finanza per limitare – come all’origine delle democrazie – il potere del sovrano e restituire potere e rappresentanza reale ai popoli.